1. Un esame approfondito della questione nazionale
dovrà tener conto, prima di tutto, del processo attraverso il quale si è
arrivati alla formazione delle “nazioni” contemporanee. Questo processo non è
che un aspetto più generale dello sviluppo del capitalismo. È il capitalismo
che ha creato le “nazioni”. Prima del capitalismo, c’erano dei gruppi etnici
più o meno omogenei, più o meno differenti, ma la nazione non esiste. In
Italia, ad esempio, i Lombardi, i Veneti, ecc. Questi gruppi etnici avevano,
tra di loro, delle similitudini nella lingua, delle tradizioni e una posizione
geografica che li avevano più o meno avvicinati, attraverso i secoli, per mezzo
di eventi storici comuni. Tuttavia, essi non erano ancora una “nazione”. La
nazione non esisteva ancora nel 1870, al momento della fine del potere
temporale dei papi. L’anno 1870 rappresenta una tappa importante nella
formazione della nazione italiana, poiché essa segna l’unificazione di tutto il
territorio della penisola in una sola entità amministrativa e politica.
Nondimeno manca ancora quella unità effettiva creata dall’installazione e dalla
dominazione del capitalismo, il quale sottomette la “nazione” tutt’intera alla
medesima legge di sviluppo, che, come si è detto più in alto, è la legge dello
sviluppo del capitalismo.
Ciò che è stato detto per l’Italia potrebbe essere
ripetuto, aldilà, dei dati particolari, per la Francia, la Germania, ecc.
2. Tuttavia il capitalismo non è solamente la forza
che crea le nazioni, è anche quello che, a un certo stadio del suo sviluppo, le
sottomette e le opprime. Il Trattato di Versailles ne è la prova più mostruosa.
La guerra del 1914-1918 ha “liberato” certi popoli dal centralismo burocratico
e militare semi-feudale a cui erano sottomessi. Lo smantellamento dell’impero
austro-ungarico, la creazione di una Polonia “indipendente”, ne sono un
esempio. Ma nello stesso tempo, esso ha sottomesso altri popoli o delle
frazioni di questi agli stati vincitori e, talvolta, a quegli stessi stati che
erano sorti in nome dell’indipendenza nazionale. La Polonia, per esempio, che
era una “nazione oppressa” sotto l’impero zarista è divenuta a sua volta uno
stato che opprime minoranze nazionali. Lo stesso si può dire della
Cecoslovacchia. Nello stesso tempo, le “nazioni” liberate dall’antico
centralismo burocratico-militare sono state sottomesse, in realtà, a una
schiavitù mille volte più dura e pericolosa, la schiavitù dell’imperialismo
moderno. Per esempio, i differenti popoli che costituivano l’antico impero
austro-ungarico sono stati “liberati”, ma la loro “liberazione” ha significato
nello stesso tempo lo smembramento dell’antica confederazione danubiana, la
fine di quella unità economica che era nata e si era sviluppata sulla base di
questa confederazione, e la sottomissione effettiva di ciascuno di questi
stati, oggi “liberi”, ai banchieri di Parigi, Londra e New York. Altri popoli,
al contrario, non fecero altro che passare da un padrone all’altro. Per
esempio, i croati e gli sloveni che, ieri, “gemevano” sotto il giogo della
monarchia austro-ungarica, maledicono oggi la dominazione della monarchia serba
o quella, assai crudele, del fascismo italiano.
Questi fatti rivelano chiaramente che il
capitalismo, da forza creatrice di nazioni, è divenuto una forza che le
beffeggia, le opprime e le distrugge. Oggi è chiaro che il destino delle
nazioni, in ciò che esse rappresentano di progressivo per l’umanità, è
strettamente legato alle sorti del proletariato.
3. Se dall’Europa passiamo all’Asia o all’Africa,
questa verità ci appare ancora più evidente. Tutta la lotta del capitalismo
delle metropoli consiste, in fondo, a mantenere i paesi coloniali nella
condizione di fornitori di materie prime e di compratori di prodotti
manifatturieri. Si vuole così impedire che questi paesi costruiscano una
industria nazionale moderna perché, in questo caso, non solamente essi
cesserebbero d’essere delle colonie, ma diventerebbero - come dimostra il
Giappone - per queste
metropoli, dei concorrenti molto pericolosi sul mercato mondiale. Ma impedire a
questi paesi di creare la loro propria industria moderna, significa
precisamente rendere loro possibile l’accesso a una via nazionale, cioè a
divenire delle nazioni.
4. Il Trattato di Versailles, il trionfo della
rivoluzione russa, lo sviluppo dei movimenti rivoluzionari negli altri paesi e
le difficoltà particolari del movimento rivoluzionario del proletariato nelle
regioni dove esistono delle minoranze nazionali, hanno reso il problema di
queste minoranze infinitamente più importante di prima della guerra. La classe
operaia, sia che si fondi sull’analisi dell’imperialismo, sia sotto l’obbligo
necessario della sua azione politica quotidiana, ha compreso che il problema
delle minoranze nazionali non solamente non le è estraneo, ma al contrario non
può essere risolto che dalla direzione della società attuale e dall’instaurazione
del potere proletario. Inoltre il proletariato è, non solamente, l’alfiere di
suoi propri interessi di classe, ma anche dello sviluppo delle “nazioni”. Il
proletariato - precisamente
perché tende a risolvere ogni problema partendo dal fatto dell’esistenza delle
classi - rigetta ogni
oppressione nazionale ed è la sola classe che, concretamente, agisce per la
liberazione delle nazioni e delle minoranze nazionali dalla schiavitù nella
quale esse si trovano attualmente, e dall’asservimento all’imperialismo e agli
stati che ne sono lo strumento.
5. Il proletariato è la sola classe che non solamente
può scrivere sulla sua bandiera: diritto di autodecisione dei popoli, ma che
può agire di conseguenza. Ma affermare che i popoli hanno diritto a disporre di
sé stessi significa, nei paesi dove esistono delle minoranze nazionali, che
queste minoranze hanno esse stesse lo stesso diritto, cioè che esse hanno il
diritto di decidere se vogliono far parte dello stato al quale sono attualmente
legate, o far parte di un altro stato, o essere autonomi. Il proletariato si
oppone a qualunque forma di oppressione nazionale quale questa sia e di
conseguenza è per la libertà nazionale, la più illimitata. E ciò perché il
proletariato è una classe i cui interessi si esprimono non sul piano nazionale
ma sul piano internazionale. Il proletariato non combatte i suoi nemici in
quanto tedeschi, francesi, giapponesi o altri, ma li combatte in quanto
borghesi, grandi proprietari fondiari o sfruttatori d altro tipo. Per il
proletariato italiano, per esempio, il borghese, che sia italiano, francese o
altro, è un nemico. E più esattamente, il nemico di cui deve sbarazzarsi in
primo luogo è il borghese italiano. Al contrario, il proletariato, che sia
francese o tedesco, è fratello del proletariato italiano, precisamente perché i
suoi interessi di classe sono quelli degli altri paesi.
6. Lo stato italiano (prima nella forma democratica,
oggi quello di forma fascista) opprime tre minoranze nazionali. La minoranza
slovena, la minoranza croata e la minoranza tedesca. Esso “protegge” l’Albania
e “civilizza”, con i metodi del generale Badoglio, la Libia, l’Eritrea, la
Somalia italiana ed è sul punto di lanciarsi contro l’Abissinia.
Lasciamo da parte per un momento le colonie e
abbordiamo il problema delle minoranze croata, slovena e tedesca. Queste
minoranze sono state sottomesse allo stato italiano dalla forza delle armi
imperialiste, giuridicamente legittimate dai trattati di Saint-Germain e di
Versailles. Noi siamo contro questo trattato di briganti, dunque siamo contro l’incorporazione
forzata delle minoranze croato-slovena e tedesca allo stato italiano. Dunque
noi riconosciamo a queste minoranze il diritto di scegliere esse stesse dove e
con chi esse vogliono far la loro strada. Inoltre, è chiaro che il fascismo
conduce contro queste minoranze una lotta nazionalista ben reale. Il fascismo
ha italianizzato le strade dei loro paesi. Ha imposto nomi italiani ai loro
bambini. Ha imposto dei maestri di scuola italiani. Nelle chiese, le prediche
devono essere fatte in italiano (la popolazione non ne capisce neanche una
parola). Nei tribunali come nei municipi, tutti gli atti pubblici devono essere
redatti in italiano, e tutti gli avocati sono obbligati a patrocinare in
italiano. Ciò vuol dire che un contadino slavo o tedesco che vuole difendere i
suoi interessi in tribunale deve servirsi di avvocati che in tribunale parlano
una lingua che è loro sconosciuta. Ma dovrà fare la sua deposizione pure in
italiano, una lingua completamente sconosciuta. L’oppressione nazionale non
potrebbe essere più manifesta. È così evidente che la lotta nazionale dei
croato-sloveni e dei tedeschi è progressista nella misura in cui essa diventa
un ostacolo alle mire dell’imperialismo italiano. Non c’ dunque alcun dubbio
che il proletariato ed il suo partito, in questa lotta, devono essere dalla
parte delle minoranze nazionali contro lo at imperialista italiano, che sia
fascista o democratico. Non agire, anzi, significa rendersi complici dell’imperialismo
italiano, significa rafforzare il suo potere, significa tradire non solamente i
diritti delle minoranze nazionali ma, prima e soprattutto, gli interessi del
proletariato e gli interessi della rivoluzione. Il proletariato deve appoggiare
tutte le rivendicazioni di liberazione nazionale delle minoranze nazionali
oppresse dallo stato italiano, compreso il loro diritto a separarsi dallo stato
italiano e a camminare insieme con chi vogliono.
7. Riconoscere questo diritto non implica tuttavia
che il proletariato deve consigliare a queste minoranze, sempre e dappertutto,
di separarsi dallo stato italiano. Al contrario, l’opposto può rivelarsi
giusto. Per esempio, noi riconosciamo ai credenti il diritto di pregare il loro
dio e anche quello di andare in chiesa (a patto che paghino i loro preti), ma
ciò non significa che noi gli consigliamo di pregare, ne di andare in chiesa.
Al contrario, noi facciamo tutto per persuaderli a non fare né l’uno né l’altro.
Lo stesso vale per ciò che riguarda la separazione delle minoranze nazionali
dello stato italiano. La sola guida che deve servirci in questo caso è l’interesse
della rivoluzione. Se questo interesse è favorito dalla separazione delle
minoranze nazionali dallo stato italiano, allora noi glielo consiglieremo e noi
li aiuteremo in questa loro lotta per la realizzazione di un diritto
riconosciuto; se, al contrario, gli interessi della rivoluzione italiana
saranno ostacolati da questa separazione, consiglieremo alle minoranze
nazionali di non separarsi dallo stato italiano. Tuttavia spetta solo a loro
decidere.
8. Le minoranze nazionali non si definiscono
semplicemente come tali, esse costituiscono un certo insieme di classi.
In altri termini, tra le minoranze nazionali
esistono le differenze di classe. Talvolta, la differenziazione delle classi
coincide, o quasi, con la differenziazione nazionale. Fra gli Sloveni dell’Istria,
per esempio, la massa dei contadini poveri è slovena, mentre i proprietari
terrieri sono italiani. Noi dobbiamo sostenere le masse lavoratrici (operai e
contadini poveri) per sviluppare la loro azione di classe contro i loro sfruttatori
( siano italiani,sloveni, croati o tedeschi) e con lo stato borghese al quale
sono assoggettati, cioè lo stato italiano. Noi non sacrifichiamo le loro
rivendicazioni nazionali ai loro interessi di classe ma, difendendo i loro
interessi di classe, noi siamo i soli a difendere realmente, egualmente le loro
rivendicazioni nazionali. Ci sono due possibilità per le quali le minoranze,
attualmente facenti parte dello stato italiano, ottengano la loro liberazione
nazionale. La prima sarebbe una nuova guerra imperialista in cui lo stato
italiano fosse sconfitto dallo stato iugoslavo o tedesco. Tuttavia questa
possibilità costituirebbe una disfatta di tutto il proletariato e per le masse
lavoratrici e creerebbe, senza alcun dubbio, una situazione contraria, cioè al
posto delle minoranze nazionali all’interno dello stato italiano, avremo delle
minoranze nazionali italiane all’interno dello stato vincitore. Questa
soluzione è quella a cui mirano gli imperialisti stranieri e i movimenti
nazionalisti piccolo borghesi esistenti, al meno potenzialmente, in seno alle
minoranze nazionali slovena, croata e tedesca. Inoltre questa “soluzione”
lascerebbe intatta l’oppressione di classe contro queste stesse minoranze
nazionali “liberate”. L’altra soluzione, la sola, la vera soluzione, è la
vittoria del proletariato italiano sulla propria borghesia. Questa soluzione
apporterebbe, d’un colpo, la liberazione di classe alle masse popolari delle
minoranze nazionali e il soddisfacimento di tutte le loro rivendicazioni
nazionali. È la sola soluzione che noi dobbiamo indicare alle minoranze
nazionali assoggettate allo stato italiano. È l’unica soluzione alla quale
dobbiamo lavorare. Ma in che modo? “Smascherando implacabilmente l’oppressione
borghese della nazione dominante e conquistando la fiducia del proletariato ( e
delle masse lavoratrici povere – Blasco) della nazionalità oppressa”
(Trotskij).
“Ogni altra via equivarrebbe a sostenere il
nazionalismo reazionario della borghesia imperialista della nazione dominante,
contro il nazionalismo rivoluzionario democratico della nazione oppressa”(
Trotskij).
9. Oltre la questione delle minoranze nazionali, noi
abbiamo avuto in Italia, dal 1919 al 1921, degli altri movimenti autonomisti e
separatisti: I due movimenti più caratteristici furono il movimento siciliano e
sardo. Quali furono i loro caratteri?
Il movimento separatista siciliano era diretto da
dei grandi proprietari terrieri e dalla grande borghesia siciliana. Questo
movimento voleva separarsi dall’Italia non perché intendeva spezzare i legami
burocratici e di dipendenza con lo stato borghese italiano, ma perché temeva
che la rivoluzione scoppiasse in Italia. La grande borghesia siciliana tentò di
sfruttare il malcontento delle masse operaie e contadine di fronte all’oppressione
della borghesia continentale e dello stato italiano per dirottarli in una lotta
contro la rivoluzione proletaria italiana.
Il movimento autonomista e separatista sardo, al
contrario, si proponeva di spezzare i legami con lo stato italiano perché
vedeva in questo l’ostacolo maggiore alle realizzazioni delle rivendicazioni
sociali e culturali delle masse popolari della Sardegna.
Il primo fu dunque un movimento puramente
reazionario. Il secondo, al contrario, fu un movimento rivoluzionario
democratico. Quale doveva essere il nostro orientamento di fronte ai due
movimenti? Nel primo caso, bisognava smascherare il separatismo della grande
borghesia siciliana quale nuovo modo di sfruttare le masse operaie e contadine
della Sicilia. Nel secondo caso, bisognava dimostrare alle masse della Sardegna
che il loro separatismo non poteva che condurli alla disfatta e che il loro
destino era strettamente legato a quello del proletariato italiano. Per
raggiungere questo risultato bisognava pertanto, nei due casi, dimostrare con i
fatti, tanto alle masse operaie e contadine della Sicilia e quelle della
Sardegna, che il proletariato difendeva realmente i loro interessi e le loro
aspirazioni contro l’oppressione burocratico-militare e culturale sia dello
stato e della borghesia italiana, sia delle cricche semi-feudali siciliane e
sarde.
10. Per quanto riguarda gli errori e i crimini degli
staliniani in quest’ambito, sarebbe necessario uno studio a parte. Tre cose,
tuttavia, possono essere sottolineate:
1 - Gli staliniani hanno tradito la formula di
Lenin - diritto delle
minoranze nazionale all’autodecisione, compreso il diritto alla separazione
dallo Stato - con “separatevi
dallo Stato”. Come se fosse possibile, per queste minoranze, separarsi dallo Stato
oppressore senza passare sotto l’oppressione di un altro imperialismo.
2 - Essi hanno spezzato il legame che esiste tra il
problema della liberazione nazionale e quello della liberazione sociale del
proletariato, cioè il problema della rivoluzione proletaria.
3 - Essi hanno messo nello stesso sacco i movimenti
separatisti reazionari e i movimenti rivoluzionari democratici. Facendo ciò,
essi sono caduti in un’accumulazione di aberrazioni tradendo gli interessi e le
rivendicazioni delle minoranze nazionali e favorendo il gioco dei briganti
imperialisti dell’uno o dell’altro campo.
1935
Pietro Tresso (1893-1943), militante nel P.S.I. insieme a Gramsci,
fu tra i fondatori del PCd’I, prese parte al IV congresso dell’Internazionale
Comunista. Membro dell’Ufficio politico, nel 1928. Nel 1930 fu espulso dal
partito, ormai sottomesso a Stalin, insieme ad Alfonso Leonetti, e Carlo
Ravazzoli perché si opponeva a Togliatti che sosteneva che il fascismo era
prossimo al crollo e si doveva organizzare il partito alla presa del potere.
Ciò significava il rientro dei militanti nello stato italiano. I tre contestarono l’analisi togliattiana
sullo stato del regime e respinsero la tattica sciagurata del “socialfascismo”:
attaccare i partiti intermedi e i socialisti, definiti “socialfascisti”. I tre sostenevano
la tattica del fronte unico, abbandonata dagli stalinisti. Combattente nella
Resistenza francese, fu assassinato dai sicari stalinisti.