A Gaza siamo in presenza
di un assedio disumano a due milioni di palestinesi, un crimine di massa
silenzioso che si aggiunge alle vittime dei bombardamenti su case,
scuole, chiese e ospedali. Tale è la privazione di acqua, cibo,
medicinali, elettricità, benzina, quella che moltiplica i morti ogni
giorno, ogni ora, nelle corsie d'ospedale, nelle case, sotto le tende,
tutte già bombardate. Quella che persino l'Organizzazione Mondiale della
Sanità si vede costretta a denunciare.
Ogni persona dotata di un minimo senso di umanità dovrebbe provare
ribrezzo per questo cinismo criminale, esibito agli occhi del mondo con
la più indifferente arroganza.
Il punto è che lo Stato d'Israele si fa forte del sostegno delle
potenze “democratiche” d'Occidente. Un sostegno politico, economico,
militare. Lo stesso sostegno che già viene offerto alla prossima
annunciata invasione di terra. Lo stesso sostegno di cui Israele ha
goduto nei 75 anni di occupazione della Palestina.
“Lo Stato d'Israele non si tocca”. Questa è la sintesi
della diplomazia mondiale, ma anche della pubblica informazione. Uno
stuolo infinito di intellettuali e commentatori di estrazione liberale o
addirittura “democratica” fanno a gara nel presentarsi ovunque come
tutori dello Stato sionista. Tutti i sepolcri imbiancati che ogni giorno
recitano il rosario sulle vittime israeliane del 7 ottobre tacciono sul
crimine immensamente più grande che si sta consumando contro i civili
palestinesi in queste ore sotto gli occhi dell'umanità intera. Noi
abbiamo denunciato da sempre la natura reazionaria di Hamas e le sue
azioni contro i civili. Ma un conto è criticare Hamas dentro il campo
della resistenza palestinese, un altro è usare cinicamente l'azione di
Hamas per coprire i crimini del sionismo contro i palestinesi e la loro
resistenza. Crimini storici e crimini in corso. In ogni caso crimini
incomparabilmente più numerosi, prolungati, efferati. O qualcuno vuol
dire che incendiare villaggi, torturare prigionieri, deportare
settecentomila palestinesi come nella Nakba del 1948, con uno strascico
di orrori senza fine, sarebbe legittima difesa umanitaria?
La verità è che lo scempio di Gaza è un tragico fascio di luce sulla natura reale d'Israele. “Grande democrazia del Medio Oriente”?
È uno Stato che non ha Costituzione, che non riconosce i propri confini
orientali, che nega a due milioni di propri cittadini arabi
l'uguaglianza elementare dei diritti nel nome dello Stato dei soli
ebrei, che promuove e protegge la colonizzazione dei territori occupati
col carico di distruzioni, umiliazioni, assassinii che la colonizzazione
comporta ogni giorno... Sarebbe questa la democrazia?
“Difendiamo Israele perché gli ebrei sono state vittima dell'Olocausto”.
Ma perché l'infinito orrore dell'Olocausto nazista contro gli ebrei, il
peggio della storia intera del Novecento, senza paragone alcuno,
dovrebbe legittimare la pulizia etnica contro i palestinesi, la loro
storica deportazione e oppressione? Semmai dovrebbe essere una ragione
in più per rifiutare ogni oppressione e persecuzione. Perché nessun
popolo può essere libero se ne opprime un altro. Eppure la più sconcia
assimilazione di antisionismo e antisemitismo è assunta come clava nel
dibattito pubblico, come forma di intimidazione verso il sostegno alla
Palestina, come scudo protettivo dei crimini d'Israele.
“Due popoli, due Stati” concedono al più i benpensanti.
Curioso. Dopo essere stata osannata per mezzo secolo dalle sinistre
riformiste di tutto il mondo, la formula “due popoli, due Stati” è oggi
talmente vuota e ipocrita da essere assunta in prima persona da tutti i
peggiori sostenitori della guerra d'Israele contro Gaza.
Dall'immancabile imperialismo USA sino a Giorgia Meloni. Passando per
quei regimi arabi che per mezzo secolo hanno scaricato i palestinesi
quando non li hanno direttamente repressi e ammazzati (Settembre nero in
Giordania, 1970). E per i nuovi imperialismi russo e cinese che
cercano nuovi clienti tra questi stessi regimi sfruttando la crisi
dell'egemonia americana.
Di grazia, dove dovrebbe situarsi uno Stato palestinese a fianco
dell'intoccabile Israele? Basta porre questa domanda elementare per
diradare la nuvola di fumo. La risposta sta nei famosi accordi di Oslo:
accordi truffa che in cambio del riconoscimento dello Stato sionista
relegavano i palestinesi in piccoli bantustan senza futuro, territori
occupati e colonizzati dallo Stato sionista con la complicità crescente
della stessa leadership palestinese.
Oggi peraltro la Cisgiordania è occupata da settecentomila coloni
israeliani, armati dalla testa ai piedi, che scorrazzano impuniti e
protetti dalle truppe, e Gaza è sotto un assedio genocida. Dunque
chiediamo nuovamente: dove dovrebbe situarsi un fantomatico Stato
palestinese rispettoso dello Stato d'Israele? I sei milioni di
palestinesi dei campi profughi, i quattro milioni di palestinesi di
Cisgiordania, i due milioni di palestinesi di Gaza, i due milioni di
arabi israeliani, una netta maggioranza della popolazione di Palestina
(e ancor più, in proiezione demografica) in quale sgabuzzino dovrebbe
rassegnarsi a vivere?
La verità è che ogni soluzione della questione palestinese passa per
il diritto al ritorno. E ogni diritto al ritorno mette in discussione
l'esistenza dell'attuale Stato d'Israele. Non degli ebrei naturalmente, ma dello Stato sionista. Di uno Stato coloniale nato dall'espulsione di un altro popolo.
Solo una Palestina libera dal sionismo, una Palestina laica, una
Palestina socialista, può realizzare l'autodeterminazione del popolo
palestinese, riconoscendo i diritti nazionali della minoranza ebraica.
Solo una simile soluzione consentirebbe la pacifica convivenza di arabi
ed ebrei.
“Ma questo significherebbe cancellare l'attuale geografia del Medio Oriente”
protestano in nome del realismo non pochi progressisti. Sì,
significherebbe esattamente questo. Significherebbe cancellare quello
che le potenze imperialiste e lo Stato sionista hanno disegnato con riga
e compasso in terra araba, con tanto di guerre d'invasione e di
massacri. Significherebbe mettere in discussione gli stessi corrotti
regimi arabi. Significherebbe saldare la rivoluzione palestinese con una
rivoluzione nazionale araba, in direzione di una federazione socialista
araba e del Medio Oriente.
Le grandi mobilitazioni delle masse arabe in questi giorni, in
Algeria, in Egitto, in Tunisia, e soprattutto in Giordania e in Iraq, ci
dicono che la grande maggioranza della popolazione araba, al di là
degli attuali confini, vive la questione palestinese come una propria
ragione di liberazione e di riscatto. Non a caso proprio il timore di
una grande rivolta araba agita le cancellerie di tutto il mondo, e tutte
le borghesie del Medio Oriente.
Sviluppare ed estendere la ribellione araba a fianco del popolo
palestinese, guadagnarla ad una prospettiva antimperialista e
antisionista, è il compito dei marxisti rivoluzionari palestinesi e
arabi. In alternativa ad ogni fondamentalismo panislamista, ad ogni
conciliazione col sionismo, a ogni forma di subordinazione agli
imperialismi, vecchi e nuovi che siano.
Marco Ferrando
Partito Comunista dei Lavoratori